29 Gen Lungarno, sul sentiero che non c’è…
Ad un tiro di carabina dalla città (si fa per dire, ovviamente, visto anche del tipo di area di cui parliamo), a partire da un ben noto ponte e lungo i margini di un Arno che ha appena voltato il muso, ha inizio un’area eletta a riserva naturale che avrebbe non poco da offrire se solo fosse più considerata e magari anche rispettata. E si narra di un lungo ma fantomatico sentiero che ne percorre l’intera lunghezza.
Abbiamo deciso di approfondire la questione con diverse incursioni durante le scorse festività natalizie.
Le prime luci del novello 2017 portano temperature assai rigide e la piana di Ponte Buriano mostra un letto d’Arno placido, invero mooolto placido, praticamente immobile… Una vista curiosa (anche se gli attempati ben ricordano gli estremi del 1985) e anche un’occasione per passeggiare senza impantanarsi lungo la sponda destra, a fianco del vasto e palustre canneto e fino alla vista in primo piano dell’imbuto e dei suoi ruderi.
BURIANO (PONTE DI) nel Val d’Arno aretino. Trovasi presso la confluenza del fiume Chiana, all’ingresso dello stretto di Monte sopra Rondine, più noto con il nome di gola dell’Imbuto, e circa 5 miglia toscane a maestro di Arezzo, sulla strada Vecchia (forse la Cassia) la quale dalla Val di Chiana si dirige al ponte di Buriano, e di là prosegue per il Val d’Arno superiore alla destra del fiume. Questo lungo ponte fu riedificato dagli Aretini nel 1179; rinforzato più volte, e rifondate le sue pile nel 1558, nel 1750 e nel 1763. Esso porta il nomignolo del dirupo casale di Buriano, dove nei tempi trapassati fu una chiesa parrocchiale sotto il titolo di S. Niccolò nel piviere di Capolona annessa a S. Pietro di Rondine, la quale chiesa sino dal secolo XI fu di giuspadronato della Badia di S. Trinità dell’Alpi, cui apparteneva la metà del mulino dell’Imbuto. (Repetti – Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana, quando c’era il Granduca…)
In alcuni punti tipicamente frequentati, accanto agli insediamenti, si ritrovano segni di un tempo più prolifico, in cui l’iniziativa locale, sotto bandiera provinciale, provava almeno a decollare. Il percorso che abbiamo esplorato e del quale daremo qualche impressione sembra però non aver mai avuto un imprimatur ufficiale pur essendo spesso citato sotto l’altisonante appellativo di GERDA, Grande Escursione Riva Destra dell’Arno. A quanto ne sappiamo, le pubblicazioni dell’allora APPA (Aree Protette Provincia di Arezzo) si fermano alla descrizione di tre brevi sentieri-natura mirati al raggiungimento di postazioni di osservazione naturalistica. Neanche il decadente mappone di estrazione CTR, qua e là ancora in piedi, ne riporta alcunché. Tuttavia, in qualche modo qualcuno ci ha lavorato e qualcun’altro ogni tanto ci passa, almeno su certi tratti.
Magari taluni disdegnano la zona perché troppo vicina all’urbe e quindi ritenuta “poco avventurosa”, eppure, nonostante tutto, per noi il GERDA è stato gustoso e sorprendente oltre aspettativa, e a dispetto del periodo.
Anzitutto, vi sono dei passaggi che non vanno presi sottogamba, magari per il pendente fondo talvolta scivoloso sebbene assai esposti a picco anche di una ventina di rocciosi metri su un Arno verde scuro (e quindi non proprio pozzanghera). Poi, le “attrezzature” che una generosa mano ha posto in alcuni tratti tosti (un grazie a chiunque l’abbia fatto) mostrano ormai i segni del tempo e – nonostante siano essenziali al superamento senza troppi patemi di alcuni punti – non conviene porci sopra una cieca fiducia stanti le condizioni di cordame e ancoraggi.
Il nostro percorso rischia di essere l’unico vero EE della provincia…
Poi ci sono le cascatelle di borri e fossi affluenti di riva destra, alcuni dei quali alimentati dalle pendici del Pratomagno. L’incasso dell’alveo del fiume in questo tratto di macigno (del Pratomagno) va talora a formare ombrose insenature e scroscianti cascatelle su rocciosi pendii le cui immagini – ci scommettiamo – potrebbero benissimo essere spacciate per luoghi assai più rinomati e altolocati.
Nel caso specifico, dato il periodo, non ci si giova certo di abbondanze acquee offerte dal disgelo, in compenso lo spettacolo di glaciali stalattiti non manca!
Ambientazioni e panorami godibili non si fanno certo desiderare, pur se non sempre riescono anche a costituire un’attrattiva fotografica: certe contingenze vanno vissute, toccate e respirate. Come il frequente sfrascolare di un mammifero disturbato o il frullo di stormi di volatili acquatici o la fugace presenza di grandi uccelli terragnoli. La ricchezza zoologica qui è notevole!
Come di consueto, Elia il lagotto non perde occasione di sguazzare ogni volta che può (che ci siano tartufi subacquei?).
Non basta che l’area non sia magari debitamente valorizzata, ci dev’essere nondimeno anche quella progenie che ha la genitrice sempre in stato interessante… (giusto per rifarsi a nota locuzione ma ovviamente senza allusione alcuna al gender!). Come di consueto, un’area protetta non viene mai debitamente protetta dall’animale più pericoloso…
Il minuscolo abitato di Penna, come Rondine sede di ruderi castellari, segna il termine dello sviluppo della riserva. Qui, la nota diga ENEL, terminata alla fine degli anni ’50 del secolo scorso (sigh!), è l’artefice di tutto quell’allargamento d’Arno dal Buriano, dove il corso primevo viene ingrassato dalla Chiana, fino al grande lago (o invaso) della Penna, appunto. Un ecosistema notevole, ricco di fauna volatile, terricola e ittica. Per non parlare dei vegetali, talvolta monumentali. Un tesoro da salvaguardare.
Laggiù, oltre la chiusa, la buia gola che conduce alla piana di Laterina.
[Nota fotografica: quel giorno, un cielo totalmente velato ha impresso una dominante vomitevole; eventuali ri-bilanciamenti alla nostra portata avrebbero solo reso più aliena la scena.]
La riserva in questione è di oltre 600 ettari e interessa tre comuni. Assieme a quella consanguinea della Valle dell’Inferno/Bandella, sono state le prime istituite dalla Provincia, nel 1996. (dati pubblicazione guida APPA del 2004)
Occorre evidenziare come si sia parlato di “esplorazione” del percorso e questo a causa di mancate evidenze di battesimo ufficiale, della mancanza di un adeguato tracciato cartografico (non parliamo poi di tracciato georeferenziato…), della latitanza di segnatura nei punti laddove serve veramente i segni, (biancorossi ma ogni tanto anche residui di biancoverde naturistico) abbondano nei punti facilmente accessibili e ovvi… ma questo è un fatto diffuso), di tratti franati e difficili da aggirare e – non ultimo – il muro di rovi con cui ci si trova spesso a che fare. Certo, è stata una nostra scelta, volevamo aggiungere un po’ di avventuretta, altrimenti avremmo anche potuto usufruire delle comode iniziative del locale Centro Visita nel periodo estivo.
Un discorso a parte vogliamo farlo sull’impressionante aggressione dell’edera alle altre specie vegetali, compresi gli alti fusti, che è ben riscontrabile nelle diverse aree attraversate. Ora, dato che di alti fusti se ne trovano assai di ben rivestiti e stramazzati (che triste e frequente veduta!), si potrebbe anche pensare ad un nesso di causalità con quel “parassita”.
Al che, ci siamo informati.
Un riassunto minimale: l’edera selvatica (hedera helix) è una liana e non un parassita nel senso stretto del termine, ovvero non trae nutrimento a sbafo dal tronco dell’ospitante. Semplicemente, si arrampica per fototropismo. Ha pure molte qualità positive a beneficio dell’intero habitat selvatico. Ma è anche vero che una sua crescita incontrollata – e ce l’ha a velocità impressionante anche grazie alla sua immunità al degrado ambientale – può interferire con l’apparato radicale e può ben aggravare il carico (peso o vento) cui l’albero ospitante è sottoposto al punto da farlo collassare, specialmente se in ambiente scosceso e roccioso le radici non hanno penetrato e ancorato a sufficienza. D’altronde, i boschi della nostra infanzia (“nostra”! diversi decenni fa…) erano sempre vissuti e puliti, dato che i campagnoli pure col bosco ci campavano… forse qualche ragione c’era… un pochino di antropocentrismo non guasta… a meno di non deliberare e proteggere specifiche e circoscritte zone sassofratinesche.
Questo vale per l’edera citata, non per certe specie parassite importate che indubbiamente danneggiano l’ecoambiente nostrano!
Sulla carta (già, ma quale?) il GERDA prosegue oltre Penna, passando accanto al Ponte Romito e fino a quell’oasi che è la riserva della Valle dell’Inferno/Bandella, la citata sorellina creta da altra diga, un must da percorrere e navigare!
Una porzione centrale dei sette chilometri di Arno interessati dal GERDA, ovvero dalle nostre peregrinazioni. Si notino i frequenti girovagheggi per esplorazioni, curiosità, sondaggi, alternative e anche vicoli ciechi! Spesso al ritorno sono state tentate delle varianti ma sempre evitando quelle troppo banali come vie agricole o poderali d’entroterra.