L’ecofrigo della Verna

L’hiking tour del Sacro Monte (“che non ve n’è al mondo uno più sacro”) si basa su due famosi anelli concentrici, il cui insieme costituisce un sentiero Frassati (esterno). Un anello alto, che arditamente costeggia i dirupi e i precipizi del dentone che è il M. Penna, l’altro basso che lo fiancheggia da sotto. La silhouette del Penna è molto particolare e inconfondibile, come quella dei Sassi (vi ricordate?) e difatti sono geologicamente parenti stretti (torreggianti sedimenti calcarei su instabile fondo argilloso) e in famiglia c’è pure San Marino che anzi battezza la tipologia.

 

Il monte della Verna (o Vernia o Alvernia) ha una forma inconfondibile e pur sempre riconducibile ai suoi ben noti parenti geomorfologici dell’Appennino settentrionale. Ma l’aria che si respira qui, pregna di sacralità e indecifrabili confini tra primordiale e manufatto, di antichità oltre la mera storiografia, di sapori puri e natura imponente e incontaminata, di baratri “orridi e umidi” e spiritualità che va oltre il credo religioso, di architetture intricate e rocambolesche, di sensazioni mistiche e ancestrali è tutta particolare, per il cui adeguato apprezzamento sarà bene scansare le giornate di assalti turistici.

 

L’anello basso è costituito, tra l’altro, dal tratto di CAI053 che parte da un cancello (da “scavalcare”) lungo lo splendido selciato dell’Ansilice poco sotto la Cappella degli Uccelli e, dopo il subentro del CAI056, transita alla Croce della Calla.

Analogamente al corrispettivo anello alto, considero questo tratto la parte più affascinante e suggestiva dell’intero girotondo, dato che offre nell’ordine: la vertiginosa scogliera vista dai suoi piedi, il precipizio delle stimmate, fiabesche visioni di faggi e abeti secolari (altro che foresta di Fangorn!) annegati in una cascata di spigolosi e muschiosi detriti calcarei, lo spettacolare strapiombo del Penna e la megabalza del Calcio del Diavolo, che rappresenta l’angolo NE del Sacro Monte.

 

Giusto all’inizio dell’anello, girando in senso orario, si rimane senza fiato e col naso all’insù. Ogni altro commento è superfluo.

 

Passando ai particolari, si notano interventi tesi a mitigare e controllare i dissesti propri dell’affascinante quanto instabile geomorfologia. Agli inizi degli anni 2000 una poderosa operazione di consolidamento ha scongiurato incombenti disastri ai sacri luoghi.

 

D’estate la visione delle pareti del tratto nord del Penna è completamente coperta dai venerandi esemplari di latifoglie. Inoltre, pure in inverno quando la sorte delle caduche è segnata e rimangono solo conifere e rami spogli, i dirupi e le attrazioni speciali, come il Masso di Fra’ Lupo, sono in permanente ombra o comunque difficilmente accessibili, rendendoli soggetti fotograficamente problematici. Il sentiero è comunque da favola.

 

Entro le suddette fiabesche visioni si trova la zona denominata Ghiacciaia (nelle carte IGM e pure nelle CTR, per perdurante atavico errore, compare come Ghiandaia). Se a quel grottino – che poi costituisce la ghiacciaia per antonomasia – ci passate davanti in estate capite il perché del nome. E visto l’argomento affine ai temi del sito hosting, soffermiamovici un attimo.

Anzitutto, sembra che la cavità freezer vintage sia stata effettivamente usata per secoli (e fino al ‘900) come conservazione di derrate, testimonianza ne sono anche i residui arrugginiti di cerniera e chiavistello unici sopravvissuti di un vero sportello. Ma come funziona?

Secondo letteratura, le ghiacciaie intese come quella specie di trulli-pozzi-casematte come anche se ne trova una giusto accanto al Santuario, funzionano col principio dell’isolamento termico: un deposito viveri scavato nel terreno (ben più fresco dell’aria estiva, come si può constatare in ogni buona cantina interrata), sigillato superiormente, posto in zona fresca e ombreggiata e, a sua stagione, riempito di neve e ghiaccio a suon di muscoli e con poi il prezioso contenuto coperto di paglia per limitare ulteriormente gli scambi termici. Possono passare inosservate, ma ve ne sono anche di diversa geometria e fattura e non certo rare ovunque vi siano strutture conservate di una antica comunità. Tanto per citare quelle locali più note, date un’occhiata qui (esterno). La tecnica della loro costruzione si raffina dal rinascimento e le migliori riuscivano a mantenere la neve, e quindi le capacità conservative, per tutta l’estate.

 

La ghiacciaia-neviera della Verna, lungo il bel vialetto che va verso i miseri resti dell’Abetone, da non confondere con l’altra, dabbasso, dall’aspetto assai naturale di grotta e di cui cianciamo nel testo. A differenza di molte altre, situate in valli e città (es. ville e comunità, pure al Giardino di Boboli a Firenze), qui la neve non c’era bisogno di trasportarla da lontano…

 

Ho guglàto assai, ma sempre imbattendomi in spiegazioni tipo neviera. Non mi convince. L’effetto che ho provato di persona, beninteso nella più profana speculazione e la sensazione di gelida e persistente corrente fors’anche distorta dall’afa estiva, mi spinge ad assumere nel caso in questione almeno un contributo proveniente da altri fenomeni, stavolta naturali.

E allora speculiamo. Nel web è difficile trovare qualcosa su un certo fenomeno, anche detto microclimatico, e quello che sono riuscito a mettere insieme per interpolazione eccolo qui.

La costituzione geomorfologica stessa del monte è tale che all’interno dei suoi rocciosi versanti scoscesi esiste una intricatissima ragnatela di fratture, cavità, cunicoli e canalizzazioni, alla cui consistenza partecipano attivamente le masse di detriti scomposti accumulatesi sulle falde a seguito di frane (che i dotti chiamano “talus”) e che lasciano, magari sotto una sottile coltre organica formatasi nei secoli, ampi volumi “vuoti”, come un Tetris mal riuscito.

 

Giusto presso il cimitero si trova questo bel rifugio per orsi (…). All’aspetto non sembrerebbe di origina carsica bensì conseguenza di fratture. Ma, origine a parte, questo o altri simili potrebbero costituire il nostro “buco alto”?

 

Da profano, direi che la presenza di calcareniti sicuramente darà luogo a processi carsici a vantaggio di quelle canalizzazioni occulte, ma non saprei dire se e in quale misura il contributo si confronterebbe con quello, presumo dominante, derivato da fenomeni meccanici. Comunque sia, se per qualche motivo vi si riesce a trovare un labirintico percorso che unisce due punti a contatto con l’atmosfera (i “buchi” di superficie), a quote adeguatamente distanti in modo che il differenziale barometrico e termometrico ci aiuti un po’, si può supporre che l’aria ivi contenuta non possa esimersi dal comportarsi secondo il buon senso termodinamico, per cui se si raffredda tende a scendere (aumento di densità ergo, dato il campo gravitazionale, di peso specifico), al contrario se si scalda (effetto camino). Il tratto declivio tra i due buchi può benissimo beneficiare della citata coltre – terriccio e/o vegetazione – che fa da cappottino isolante, giocando un ruolo essenziale per il fenomeno. Assunto ciò, prendendosi vasti margini di approssimazione qualitativa (e figuriamoci quantitativa!) giusto per mascherare pietosamente una patetica incompetenza , il fenomeno potrebbe semplicisticamente riassumersi così: d’inverno, viste anche le temperature esterne del lato nord, si formano delle correnti ascensionali tra il “buco basso” e il “buco alto” tramite gli occulti labirinti; l’aria che vi transita si riscalda grazie alla maggior temperatura della roccia interna (rispetto a quella rigida esterna), che cede calore ma paga lo scotto raffreddandosi a sua volta; chiaro che una volta innescato, il fenomeno si aiuta risucchiando immancabilmente ulteriore aria “bassa”. Se dall’alto ci sono poi trafilamenti di acque (piovane, disgelo…), questi andranno a insinuarsi e incastrarsi ovunque negli interstizi rocciosi e pure geleranno dato l’intimo contatto con la raffreddata roccia. E questi ghiacci intestinali costituiranno la riserva di freddo.

 

Tutto il versante nord del Penna è una immensa falda detritica, laddove per detriti non si intendono sassolini ma corposi dadoni calcarei. è veramente una visione da film fantasy. Questo è il talus. La possente vegetazione potrebbe essere artefice di quella copertina di materiale organico essenziale per l’innesco dell’effetto discusso.

 

D’estate, l’aumento di temperatura ambiente causerà una inversione del moto convettivo: l’aria nelle viscere del versante, freddina causa contatto col quel ghiaccio prima citato, tenderà a scendere e fuoriuscire dal “buco basso” (detto anche wind hole), gelando qualsiasi cosa trovi, vettovaglie o passanti. Al solito, la natura aborre il vuoto per cui altra aria sarà risucchiata dal buco alto e il fenomeno andrà avanti finche ne sussistono le condizioni (scorta di ghiaccio, temperature e pressioni esterne, umidità, labirinti percorribili, simpatie di Bernoulli e Kelvin, ecc.). E appunto, l’anfratto Verniano è caratterizzato da un potente getto d’aria gelida anche ad agosto, secondo me non riconducibile ad una mera conservazione stagnante come nelle neviere, oltretutto considerando che oggi nessuno la riempie.

 

Ed eccolo, finalmente, il nostro pertugio con i supposti intrinseci meccanismi frigorigeni. Magari ci sarà pure stato un adattamento antropico ma l’origine parrebbe assai naturale. Se fosse semplicemente una neviera, certo è che si trovava in posizione scomoda per gli utenti, che se la potevano benissimo fare più agevolmente raggiungibile, come non mancano esempi anche a Camaldoli e Vallombrosa, tanto per citarne qualcuno in tema. L’atteggiamento gonzo del sottoscritto nello scatto centrale va inteso con un fumetto del tipo “Orpo! Sudato come so’ qui ce piglio ‘na sincope!”. Un buco poi all’inizio della faggeta, nello scatto a destra, con le stesse stupefacenti proprietà ma di completa inutilità antropica dovrebbe spezzare una lancia in favore della presupposta frigoria naturale che sembrerebbe interessare la zona.

 

Cercare di erudirsi documentandosi a tempo perso è un sano sport ma non fa certo autorevoli e, come disse Galileo, le speculazioni di filosofia naturale rimangono meri byte semanticamente vuoti se non avallati da fatti. Per repliche o ulteriori approfondimenti in merito passo quindi tosto la palla in primis ai meteoveggenti del sito, che queste materie le mangiano pure a colazione.

Comunque, applicabile o meno al nostro pertugio, sta di fatto che il curioso fenomeno stagionale sopra descritto esiste eccome, raro ma non eccezionale, ed è ben definibile come frigo naturale, a ciclo aperto e con “pompa” e fluido atmosferici, nessun effetto sulla CO2. Il massimo dell’ecologia, no?

Certi reportage parlano pure di vallette piè-di-monte il cui microclima è talmente condizionato dagli effetti che vi si evolve un ecosistema particolare e altrimenti improponibile.

A questo link (esterno) trovate notizie succulente e stralcio di carta ufficiale PNFCMF&C, cortesia della Regione Emilia-Romagna. Per gli amanti del Parco, la suddetta carta ufficiale (by SELCA) e magari anche quella IGA sono un must.

Saluti da Carlo Palazzini